Chi era Anna Politkovskaja, la reporter russa che osò denunciare il regime di Vladimir Putin, gli eccidi della guerra in Cecenia e gli orrori perpetrati da Ramzan Kadyrov?
Per scrivere il mio romanzo Anna Politkovskaja. Reporter per amore edito da Morellini ho studiato la sua vita. Letto i libri che ha scritto e che su di lei sono stati scritti. Ho intervistato le persone che le sono state vicine: la sorella Elena, l’amica Nadia, l’inviata Stella Pende… Poi, intorno alla sua biografia, ho costruito una cornice narrativa che ha reso più accattivante la sua biografia, già però molto avvincente.
A seguire, un capitolo alla volta, ecco la biografia, completa e approfondita, di Anna Politkovskaja, la grande reporter russa che, fino all’ultimo, fu una spina nel fianco per Vladimir Putin, Ramzan Kadyrov e tutti i soldati russi che, in Cecenia, si macchiarono di reati gravissimi.
Questa è la nona puntata. L’ottava è: Parigi
Il coraggio
“Lavorare sui fronti di guerra? La paura di morire all’inizio c’è.
Ma poi scompare, un po’ alla volta, come tutte le sensazioni forti”
“Non mi va di soffermarmi sulle altre ‘gioie’ del lavoro che ho scelto: l’avvelenamento, gli arresti. Le lettere minatorie. Le minacce via Internet e le telefonate che mi avvertono che mi faranno fuori. Quisquilie. L’importante è avere l’opportunità di fare qualcosa di necessario. Raccontare la vita, ricevere ogni giorno in redazione persone che, disperate, non sanno più dove andare né a chi rivolgersi. Dalle autorità ricevono solo porte in faccia: per l’ideologia al potere, le loro disgrazie non esistono, di conseguenza non possono trovare spazio sui giornali. Su nessuno, tranne la Novaja Gazeta” così dice Anna.
Ma com’è la sua vita e quanto il pericolo lo avverte vicino?
“Non ho paura per me, ma per i miei figli. Se rischio la vita, lo faccio per loro. Perché imparino a credere in una Russia migliore, in cui le persone non mettano le testa sotto la sabbia ma abbiano il coraggio di fissare il potere negli occhi”.
Le prime minacce le arrivano a metà degli anni Novanta, ancora prima che inizi a occuparsi della Cecenia. Negli ultimi anni, gliene arriverà una media di 10-15 alla settimana. “Mi rifiuto di nascondermi e di aspettare, chiusa in cucina, giorni migliori”.
Negli anni, ci sono tanti eventi che anticipano quale sarà la fine di Anna. Una bomba artigianale fatta esplodere davanti alla porta di casa. Un agguato in redazione. Un incidente d’auto con sua figlia alla guida. Una donna così simile a lei uccisa davanti al suo condominio.
Per non parlare dei pericoli corsi sul campo: 40 missioni in Cecenia, da clandestina, rischiando a ogni posto di blocco, a ogni controllo, a ogni bombardamento.
“Lavorare sui fronti di guerra? La paura di morire all’inizio c’è. Ma poi scompare, un po’ alla volta, come tutte le sensazioni forti. Condivido il destino di una popolazione, lavoro con la gente. Se non ci vado io, andrà qualcuno meno esperto e più esposto ai pericoli. Io ormai so come muovermi”.
Febbraio 2001. “Dopo aver salutato il comandate del 45° distretto, vengo arrestata. Mi ordinano di restare immobile per un’ora in un campo incolto. Poi mi caricano su carrarmato e mi portano in una tenda. Seguono ore di interrogatorio. Mi tolgono gli occhiali. I contorni diventano tutti sbiaditi. Strizzo gli occhi, ma non vedo niente. Le gocce di sudore mi scendono dietro l’orecchio, lungo i capelli. Una, due, venti, trenta, cinquanta gocce. I soldati intorno a me: tre o quattro? Vanno e vengono. Mi puntano la canna di un fucile alla nuca. Uno si pulisce le unghie nere con la punta di una penna. ‘Allora, giornalista, vuoi dirci con chi hai parlato?’ Mi afferrano per i capelli, mi danno un pugno sul naso, striscio la faccia sul pavimento, mi tirano un calcio contro il petto. I giovani ufficiali mi torturano per tre ore, concentrandosi sapientemente sui miei punti più sensibili”.
Anna, fragile e fortissima, resiste. E così la tortura si fa più raffinata: “Guardano le foto dei miei figli, dilungandosi sul modo in cui li avrebbero seviziati. Mettono su una musica che considerano romantica e alludono alla possibilità di una ‘felice risoluzione’ della cosa, se fossi stata disposta a conciliare in un certo modo”.
Lei si rifiuta. La trascinano fuori, nel buio. Camminano a lungo.
“Mi portano in un cortile. Mi legano qualcosa sulla schiena, forse un mortaio. ‘Ora facciamo il botto e ti trovano a pezzetti giornalista, che fai? Non parli?’ Non parlo, non piango, è come se mi osservassi da fuori”.
Ci riprovano “con le buone”.
“Arriva un ufficiale e cerca di portarmi in una sauna e farmi togliere i vestiti. Quando si accorge che non eseguo il suo ordine, va su tutte le furie: ‘Un tenente colonnello ti corteggia e tu osi rifiutarti, puttana di una militante?’”
A quel punto, la portano in una fossa e la lasciano lì per tre giorni senza cibo né acqua.
“Non bevo, non fumo e non amo l’adrenalina. I giornalisti maschi qualche volta giocano alla guerra. Io la odio. È orrenda. Quando ero prigioniera nella fossa era terribile: sporcizia, puzza, senza bagno, acqua, cibo. Mi avevano tolto anche i bottoni, temevano che dentro ci fossero microfoni”.
Alla fine, il 22 febbraio, la tirano fuori. “‘Giornalista, il ministero ti ha salvato il culo’. Mi slegano, mi buttano su un elicottero in partenza. Prima che ci alziamo in volo, il loro ultimo saluto è ‘Se dipendesse da noi, ti uccideremmo’. Per tutto il viaggio, sento soldati che ridono e raccontano barzellette sconce. Accanto a me avverto un altro corpo. Esploro con le dita. Giro il viso. Mi costa. È un cadavere. Ancora caldo”.
Ma, ancora una volta, il coraggio prevale sulla paura. E la giornalista sulla donna. “Fu un arresto prezioso perché riuscii a vedere le fosse. Tanti ne parlavano, ma nessuno era mai riuscito a vederle”.
In un’altra occasione, si ritrova da sola, in piena notte, sulle colline cecene, scappando nell’oscurità. Il servizio di sicurezza russo, l’Fsb (ex Kgb) la vuole arrestare. Ma quella non è neanche la prospettiva peggiore. Avrebbe potuto incontrare animali selvatici, banditi ceceni, squadroni della morte.
“Ho camminato tutta la notte. Volevo restare in vita! È stato terrificante. Ho raggiunto il villaggio di Starye Atagi all’alba. Ci sono rimasta un giorno e una notte, a testa bassa…”
Anna ha paura, ma più che per se stessa per le sue fonti. E, quando qualcuno dei suoi informatori paga con la vita, lei è distrutta dai sensi di colpa. “Anch’io ho ucciso. Io: Anna. Anch’io, in fondo, sono sporca di sangue. Qui in Cecenia non c’è nessuno che non lo sia. Ci penso spesso: quante persone ho io sulla coscienza?”
Ma come scendeva a patti con la prospettiva di una fine imminente?
Era prudente.
Racconta Anna Raffetto: “Quando ci siamo conosciute meglio, nel 2005, mi aveva raccontato delle precauzioni quotidiane che prendeva: ogni mattina nel garage esaminava il fondo dell’automobile per vedere se non fosse stato piazzato un ordigno. Limitava al massimo i contatti, stava molto attenta alle persone che iniziava a frequentare”.
Era realista.
“Morire? È una possibilità. Come chi è in guerra, vede gli altri e sa che può capitargli la stessa cosa”.
Era scaramantica.
“Dicono che se parli di una disgrazia poi contribuisci a farla capitare. Questo è il motivo per cui non parlo mai a voce alta di quello che temo. Così non accadrà” confida a Eric Bergkraut, regista del film a lei dedicato Letter to Anna.
Era impermeabile.
Spiega la sorella Elena: “L’abbiamo implorata tutti di smetterla. Abbiamo pregato. I miei genitori. I suoi editori. I suoi figli. Ma lei rispondeva sempre allo stesso modo: ‘Come potrei convivere con me stessa se non scrivessi la verità?’” Ma, alla fine, le persone più vicine capivano. “I figli mi rispettano, e così i loro amici. Le mie amiche sono rimaste. Mia suocera, che mi odiava, oggi invece mi adora, perché pensa che la mia è stata una vita onesta”.
Era fatalista.
“Mi sveglio ogni giorno con la sensazione che potrebbe essere l’ultimo”.
Era Anna.
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