Ho 41 anni, 11 mesi e 29 giorni. Escludo di voler arrivare a 42.
I numeri parlano chiaro: a quest’età è più facile contrarre il virus Ebola che trovare un uomo decente. Un licenziamento è sette volte più probabile di un aumento. E le creme antirughe non funzionano (il 95% delle donne non nota alcun miglioramento e il 5% si rassegna al lifting).
Mentre faccio colazione con tè (verde) e biscotti (organici), mi è chiaro che cosa devo fare. Andarmene ora che sono al top della forma e la vita ancora mi sorride.
Ma la decisione va pianificata, così apro l’agenda. È domenica, ho tutto il tempo. L’ideale è farlo a inizio settimana, quando l’attenzione è massima. Funerale di giovedì, prima che inizi l’esodo dei milanesi verso le seconde case. Morire nel week-end, socialmente, è un suicidio.
Il successo di un evento è nella cura dei dettagli. Lo so bene io, che lavoro nelle pierre.
Il testamento, in primo luogo. Prendo un foglio e inizio la disamina dei miei averi. Non ci metto molto: la casa è in affitto, la macchina in leasing, il televisore in prestito e lo stereo rotto. I miei gioielli sono tutti falsi. Bigiotteria di alta classe: molto costosa, ma non preziosa. Ciò su cui ho investito sta tutto nel mio armadio a quattro ante. Lascio il mio guardaroba a Sveva: da quando le è nata Delfina, non si è comprata niente di nuovo. A Pilar, che mi fa le pulizie, destino la collezione completa di Sex and the City.
Secondo punto: devo scrivere come voglio essere seppellita. Il vestito di Valentino è molto chic, ma forse il rosso non è il colore più adatto. Il tailleur Armani? Sofisticato, ma un po’ funereo…
Mi viene in mente l’articolo che ho letto da poco su Femmina elegante. Si intitolava: Farla finita con stile – Le dieci regole d’oro del suicidio più cool. Era una miniera di consigli, a saperlo l’avrei tenuto da parte. In ogni caso, ricordo benissimo: la sepoltura è out, la cremazione è in. Pare l’abbiano scelta, in prospettiva, anche Sharon Stone e Madonna. E io non voglio essere da meno. Così metto nero su bianco le mie volontà.
E veniamo all’aspetto più importante: il ricevimento. So per esperienza che, a prescindere dall’evento, se poi non c’è da mangiare non viene nessuno. E di certo non voglio che al mio funerale ci siano solo mia madre che piange e Pilar che si trascina la gabbietta di Bigodino e Martingala, i miei bambini. Le mie due cavie peruviane.
Così alzo il telefono e chiamo la società di catering più importante della città. Sono i migliori, costano un botto. E lavorano anche di domenica. Trovano la mia richiesta un pochino strana. Ma si rasserenano, quando spiego che ho intenzione di pagare in anticipo. Concordiamo il menù: tartine e vol-au-vent. I canapé al caviale sono la morte sua. Spumante brut (quello dolce è un po’ frivolo, vista l’occasione). Per dessert, evitiamo la pasticceria mignon, decisamente old fashion. E puntiamo su barchette di frutta e crema.
Soddisfatta, passo al punto successivo: la comunicazione. C’è da avvisare in anticipo qualche amico giornalista. E innescare così il passaparola. Ci vuole qualcosa di divertente, che giochi su assonanze e doppi sensi. Penso a qualcosa del tipo: «Lei se ne è andata, ma vuole che voi veniate» e sotto l’immagine di un corteo funebre. Alla fine me la cavo con un sobrio: «È morta Marta. W Marta!». Mi sembra carino, moderno, poco impegnativo.
Mi rimane solo da fare una telefonata, alla pagina dei necrologi del Corriere della Sera. «Veramente non rientra nella nostra procedura…» è il loro esordio. Poi il bonifico anticipato li convince. Detto il mio annuncio.
Ho 41 anni, 11 mesi e 30 giorni. Come prima cosa chiamo in ufficio per dire che ho un malessere. Li ho fregati: sto benissimo!
Mi preparo con cura. Scelgo il tailleur grigio con la camicetta rosa. Voglio essere ricordata così: determinata, ma non per questo meno femminile. Indosso le scarpe con i tacchi a spillo. Dopo un po’ mi fanno male, ma oggi la circostanza è ininfluente. Prima di uscire mi guardo allo specchio. È un sollievo pensare che morirò senza rughe e con i capelli ancora (quasi) tutti neri. Sono soddisfazioni.
Prendo il tram al volo. Al di là del finestrino, scorre una città operosa.
Una volta arrivata, la grandiosità del Duomo mi conquista. Già mi vedo venir giù in volo planare. Come un angelo caduto. Gli sguardi che, dalla piazza, si alzano su di me durante il mio ultimo viaggio. Arrivo all’imbocco della salita. Fra scale e ascensore, non ho dubbi. La ragazza allo sportello lo intuisce: sono troppo glamorous per voler salire a piedi. Peccato che poi mi annunci (ci giurerei con un pizzico di compiacimento): «L’ascensore è rotto».
È dura la salita. I 158 gradini fiaccherebbero le intenzioni più granitiche. Non le mie. Arrivo in cima più convinta che mai. È una luminosa giornata di fine marzo. Il cielo di Lombardia sta dando il meglio di sé. Di lunedì, fra le guglie, il pubblico è scarso. Turisti, coppiette, ragazzi che hanno saltato la scuola. Punto decisa a un parapetto e guardo giù. La piazza squadrata è punteggiata di passanti che si muovono senza tregua. Da qui mi sembrano formichine impazzite. Mi sporgo un po’ di più, quando una voce stentorea mi sorprende alle spalle: «Ehi, non vorrà mica buttarsi di sotto!».
Mi volto e ho davanti un uomo giovane e corpulento. Neanche male. Porta con orgoglio una targhetta con scritto “security”.
Assumo un’aria innocente e osservo: «In effetti, per suicidarsi questo è il posto ideale…».
«Non più – gela i miei entusiasmi – la gente ci aveva preso il vizio e così abbiamo messo delle reti di protezione. Ora, se lei vede, non c’è più un punto da cui è possibile buttarsi…».
Infastidita, ribatto: «Mi sembra una chiara violazione dei diritti del cittadino!». Lui rimane muto e io proseguo, con l’indignazione che cresce: «Adesso uno non è più neanche libero di venire a suicidarsi in Duomo, il simbolo della sua città…».
«Ma signorina…» inizia lui.
Io sono lusingata da quel “signorina”: lo dice con una buona dose di ammirazione ed escludo voglia significare che non ho trovato uno straccio di marito. Ma questo non basta a lenire la delusione. Gli giro le spalle e me ne vado. Senza degnare il panorama di una seconda occhiata. Di nuovo 158 scalini, questa volta in discesa. Le scarpe cominciano a farmi male.
Arrivo in piazza Duomo che ho i nervi a fior di pelle. Il cielo si è rannuvolato. Così come il mio piano per un suicidio perfetto. Ma, da persona organizzata, ho un piano b.
Su Femmina elegante, gettarsi nel vuoto era la modalità di suicidio più cool. Buttarsi sotto un treno (o auto, metropolitana, autobus…) era solo al settimo posto. Ma il tempo stringe e bisogna accontentarsi. Scendo le scale che portano alla metro, timbro il biglietto. Sulla banchina si va raccogliendo una folla spazientita. Mi posiziono in coda: questo è il punto in cui il treno è ancora abbastanza veloce. Mi sporgo, per vedere se il convoglio è in arrivo.
«Siete pregati di non superare la linea gialla!» tuona la voce all’altoparlante. Mi giro infastidita, rivolta al grande fratello che mi sorveglia dall’alto. E così perdo l’attimo. Il treno arriva e riparte. Senza che io me ne accorga e senza me dentro.
Mi siedo buona buona e aspetto il treno successivo, su cui salgo diligente. Ormai la stazione Duomo è bruciata. Faccio due fermate e scendo a Cairoli. Meno centrale, ma a due passi dal Castello. E da una morte regale. Ora so cosa fare: fingo indifferenza, mi defilo, pronta a buttarmi solo all’ultimo momento. Avverto il rombo. Sbircio in lontananza e vedo le luci della motrice, simili agli occhietti di un serpente. Mi do la spinta e chiudo gli occhi. La sensazione successiva è un dolore lancinante. Alla caviglia destra. In preda all’entusiasmo, ho fatto il passo più lungo della gamba e messo un piede in fallo. Il tacco si è rotto e la mia caviglia ha assunto un’angolazione innaturale. Gli occhietti del serpente sono a pochi metri da me. Potrei buttarmi. Ma ora ho preoccupazioni più urgenti: il calzolaio saprà riparare le mie scarpe da 200 euro?
Mi ritrovo seduta sulla panca in marmo. Circondata da attenzioni e volti preoccupati. Una ragazza mi fa riprendere, poi mi accompagna fino al parcheggio dei taxi. «Ciao, ciao» mi saluta, dopo avermi caricato sull’auto bianca. Avrà 20 anni e mi dà del tu. Sono lusingata, anche se cerco di non darlo a vedere.
Arrivo a casa stravolta, mi butto sul letto, mi addormento di schianto. Quando mi sveglio è già buio e non c’è una parte del mio corpo che non pulsi dolorosamente.
Per rispettare la tempistica, non ho un secondo da perdere. Richiamo alla mente l’articolo di Femmina elegante. Ricordo: «La donna ricercata sa morire con classe, tagliandosi le vene immersa in un bagno pieno di schiuma ed essenze profumate. Fragranze consigliate: sandalo e pompelmo rosa».
Non ho il pompelmo rosa, ma mi rifaccio col passion fruit, sperando che nessuno noti la differenza. Mi spoglio, mi immergo e mi abbandono al calore dell’acqua. Poi torno in me. E al compito che devo portare a termine. Cosa uso per tagliarmi le vene? Apro il cassettino del bagno e trovo le forbicine da unghie, palesemente inadeguate. Ci vorrebbe un rasoio, ma io uso solo l’epilatore. E la vedo dura suicidarsi con un epilatore (a meno di non darselo in testa…).
Il taglierino, ecco cosa ci vuole. Ma è nella cassetta degli attrezzi, sul balcone. A malincuore, abbandono il tepore dell’acqua. Mi tiro addosso l’asciugamano e, a piedi nudi, zoppico fino alla cucina. Esco in terrazza, una ventata mi fa rabbrividire. E mi distrae. I piedi bagnati non hanno aderenza e scivolo. Provo ad aggrapparmi alla tenda, ma questa si stacca. Rimango senza appigli, in balia dei piedi che sdrucciolano. Chiudo gli occhi, ingoiata dalla voragine dell’ignoto. Che sarà di me? L’asciugamano cade a terra. Dove io lo raggiungo poco dopo, atterrando pesantemente sul sedere. Rimango qualche attimo immobile, a occhi chiusi.
Sono seduta in mezzo al mio balcone, nuda, nel cuore della notte, con una caviglia slogata e un dolore sordo all’osso sacro.Da due giorni non penso che a morire. E ora, improvvisamente, mi è venuta una gran voglia di vivere.
Ho 42 anni, un giorno e una manciata di ore. La serata è stata un successo: amici, regali, complimenti. «Solo tu potevi avere l’idea di organizzare una festa di compleanno come se fosse un funerale…» mi dicono.
Sorrido.
«Ti diverti?» mi chiede il ragazzo conosciuto in cima al Duomo, che anche stasera si occupa della security.
«Da morire!» gli rispondo.
Lui mi scocca un’occhiata complice: ha capito.
Anch’io, forse.
Pubblicato nell’antologia Suicidi falliti per motivi ridicoli (Coniglio Editore, 2006)