Un racconto sui Queen
«Buongiorno signora» mi saluta la receptionist.
«Buongiorno Angela, tutto bene la sua bambina?» le domando infilando la porta a vetri.
«Sì, grazie. E i suoi?».
«Sì, bene». Bambini per dire, penso. A 10 e 12 sono già dei pre-adolescenti.
Mi sistemo nell’elegante sala d’attesa. C’è un’ampia selezione di quotidiani, ma tanto ho già avuto la mia razione quotidiana di notizie sull’iPad.
«La paziente è arrivata» sento Angela avvisare.
Veloce controllata all’agenda elettronica: in studio la prossima cliente è tra due ore, un caso di separazione con addebito. Tommy è a judo, Vivi a danza. Li passa a prendere Gaetano, che oggi è riuscito a liberarsi. Per fortuna, non è quel tipo di padre che sta con i figli solo nel week-end.
«Signora?» il richiamo dell’infermiera filippina è cortese, ma fermo. Mi alzo, sospirando.
Il dottore mi accoglie con una stretta di mano.
Mi accomodo sulla poltrona.
«Oggi dobbiamo ritrattare il 17» mi annuncia lui. E poi scende in dettagli tecnici che poco mi interessano. Basta che non mi faccia male.
Mi abbandono sulla poltrona. Lo schermo davanti a me si riempie di immagini e la stanza di note. Chissà che concerto è in programma quest’oggi. L’ultima volta mi sono dovuta sorbire Andrea Bocelli al Madison Square Garden. Adesso, invece, tocca a un nerboruto Freddie Mercury in canottiera. Un concentrato di talento e sex appeal. Decisamente meglio.
Nel frattempo, il dottore ha cominciato a ravanarmi in bocca.
«Tutto bene?» si preoccupa.
Mugolo il mio assenso, come posso.
Ammicco a Freddie in canottiera e chiudo gli occhi. Ma guarda un po’ se per rilassarmi un po’ devo aspettare di andare dal dentista.
Sulle note di Who wants to live forever comincio ad abbandonarmi.
«Mi avvisi se le faccio male» si preoccupa il dottore.
«Ahia!»
L’impatto è violento, ma cosa è successo? Alzo gli occhi e mi trovo davanti un armadio di una ventina d’anni.
«Guarda dove vai, morettina!» mi dice il ragazzo.
Lo scruto indispettita e farei un passo indietro, ce ne fosse lo spazio. Ma qui siamo tutti pigiati. Così stretti che neanche mi rendo conto dove siamo. L’illuminazione è insufficiente e il frastuono indescrivibile.
Per un attimo mi sento persa: dove sono? Poi qualcuno afferra la mia mano. Alzo lo sguardo e vedo la mia migliore amica, Laura. Mi sento invadere dal sollievo. Un attimo dopo, dalla perplessità.
«Lalla, ma cosa hai fatto ai capelli?» L’ultima volta che l’ho vista, la settimana scorsa, all’inaugurazione di una galleria d’arte in centro, aveva il suo solito caschetto liscio e mesciato. Ora i capelli sono lunghi alla schiena, spettinati e di un castano chiaro che penso non vada più di moda da anni.
Lei unisce le dita di una mano e mi chiede: «Eh?» Non ha capito la mia domanda, ma neanche ne sollecita una ripetizione. Poi mi afferra e, senza tanti riguardi, mi trascina con sé dove la folla è più numerosa.
«Cerchiamo il Mauro!» Urla, sovrastando il frastuono.
«Il Mauro? Ma se non vi parlate da cinque anni!» replico, sforzandomi anche io di gridare.
Laura si volta, sorpresa. Apre la bocca, fa per dire qualcosa, ma poi rinuncia.
«Dai, da quella volta in cui lui e Tonio si sono scannati parlando di politica!» Le spiego, mi rendo conto inutilmente. Visto che la mia amica si ricorda di certo la sfuriata tra il suo migliore amico lumbard e il suo fidanzato pugliese.
Ma lei continua a guardarmi con lo sguardo vitreo. E, quasi mi sembra, un po’ preoccupato.
Cerco di capirci qualcosa, ma gli eventi corrono più veloci dei miei pensieri.
“Dove siamo?” vorrei chiedere alla mia amica, ma credo che dovrei saperlo. E così cerco di capirlo da me. A tutta evidenza, ci troviamo in un palazzetto dello sport gremito di ragazzi. Anche se il mio ultimo ricordo era il trapano del dentista, intuisco di trovarmi qui per accompagnare il Tommy e la Vivi a vedere una qualche boy band di tendenza.
«I bambini dove sono?» chiedo alla mia amica, che però neanche si gira. Fendiamo la folla e arriviamo a una decina di metri dal palco. La scenografia, con le enormi ruote dentate di Metropolis, è di grande impatto e decisamente vintage.
Guardo l’ora: indosso uno Swatch che pensavo di aver chiuso in qualche scatolone in cantina. Sono le nove e mezzo. Il pubblico comincia a rumoreggiare. Fari colorati si accendono a intermittenza sul palco. Laura lancia un gridolino strozzato. E subito dopo afferma trionfante: «Eccoli!»
Un attimo dopo, ci raggiunge il gruppetto degli amici dell’università: Mauro, Raffaella, Diego, Cinzia e Alessandro. Indossano tutti abiti fuori moda – tra cui spiccano jeans ascellari e Superga – e hanno acconciature improbabili.
Adesso capisco! Siamo a una di quelle serate nostalgiche di revival anni Ottanta. Della serie, vestitevi e comportatevi come allora. Diego deve aver preso la cosa più sul serio di altri, perché ha pure messo un parrucchino sulla sua boccia pelata. Realistico, devo dire.
«Iniziano!» strilla Cinzia, perdendo il suo aplomb da dottore commercialista.
Mi chiedo chi stia per salire sul palco. Chi meriti tutto questo entusiasmo.
Nel frattempo, mi guardo in giro. Visi accesi dall’eccitazione. Coppie che si abbracciano. Gruppi di amici che si passano una canna. Seratona, penso. Perché non sono sul divano con mio marito e i miei figli?
Mi sento osservata e mi giro. Un ragazzo alto, carino e con i capelli lunghi mi fa l’occhiolino. «Complimenti alla mamma» mi sussurra all’orecchio. Mi sento scuotere da un brivido. Non sono mai stata con uno con i capelli lunghi. Poi penso che ho vent’anni più di lui e mi ricompongo.
Lui si allontana e io cerco di capire che cosa possa aver suscitato in lui quell’entusiasmo. Al pari dei miei amici, indosso Superga e jeans a vita alta. Omioddio! Sotto la t-shirt bianca, sono piatta come una tavola! Che ne è del mio push up?
Ma i dubbi possono aspettare. Le luci si spengono e parte l’intro di una canzone famosa. Non la riconosco, ma io non sono una grande esperta di musica.
«Machines è la mia preferita!» starnazza Raffaella. E dire che la immaginavo tutta casa, chiesa e oratorio.
Il gruppo fa il suo ingresso sul palco. Tripudio. Ed è allora che li riconosco. Anche loro vestiti come allora. Be’, a parte il fatto che non possono essere loro.
I miei amici, in sincrono con tutto il palazzetto, cominciano a ballare e cantare. È come se fosse in atto un terremoto e in un certo senso è così.
Alla fine della terza canzone, mi rivolgo a un Mauro sudato e paonazzo.
«Non capisco tutto questo entusiasmo per una tribute band» osservo.
«Per una… cosa?» mi chiede lui.
La musica, che ha concesso una breve tregua, riprende.
«Be’, il cantante è bravo» strillo all’orecchio di Laura.
Lei allarga le braccia, come a dire: “mica lo scopri tu”.
Lo osservo meglio: oltre a essere uguale esteticamente al modello, canta proprio come lui.
«È spiccicato a Freddie Mercury!» affermo.
Laura si volta e mi fissa lunghi attimi con gli occhi sbarrati: «Lory, ma sei fuori? Lui è Freddie Mercury!»
«Dai, Lalla, non scherzare…»
«Non scherzo affatto!» mi assorda.
«Ma Freddie Mercury è morto da più di vent’anni!» Non so esattamente da quanto, ma venti sono passati tutti.
Nel frattempo, la musica si è smorzata e buona parte dei miei vicini di sottopalco hanno udito la mia affermazione e si sono girati stupefatti a guardarmi.
È morto di Aids, vorrei aggiungere. Ma me ne sto zitta. Nel frattempo, vedo Laura fare due gesti inequivocabili per sintetizzare ai presenti il mio stato. Il primo: l’indice che picchietta la fronte. Il secondo: indice e medio della destra che fanno avanti e indietro dalla bocca. Come dire che mi sono rincoglionita dopo aver fumato una canna.
Non ho fumato una canna, vorrei dire. Ma poi ci penso meglio. E qualcosa affiora nella mia memoria. Forse una canna me la sono fatta, ma appena due tiri, con dei ragazzi di Brescia.
Ma no, non può essere quello. La spiegazione è sicuramente un’altra. Mi sono addormentata sulla poltrona del dentista vedendo il video del concerto dei Queen e ora sto sognando. Certo, è un sogno particolarmente lungo e molto realistico, ma pur sempre un sogno.
Per essere svegliata chiedo a Cinzia di darmi un pizzico.
Lei lo fa, subito, come se non aspettasse altro.
«Ahia!» sobbalzo. Chiudo gli occhi. Prima di riaprirli conto fino a dieci.
1, 2, 3…
Adesso mi ritroverò nello studio del dentista, nel 2013 con la tv che trasmette il concerto dei Queen e tutto il resto.
… 4, 5, 6…
Altro che jeans ascellari, Swatch e Superga macchiate.
… 7, 8, 9…
E i miei figli. Oddio, quanto mi mancano. Non sto mai tanto tempo senza sentirli. Non è proprio possibile che me ne sia andata a un concerto senza di loro.
10.
Riapro gli occhi. Non ho davanti uno schermo televisivo, ma un palco. E sopra Freddie Mercury, o chi per esso, sta intonando Under pressure. Vabbè, chissenefrega. È la mia canzone preferita, subito dopo Bohemian Rhapsody. E, finché dura il sogno, tanto vale scatenarsi. Inizio a cantare a squarciagola. Per tutta la canzone, sono come in uno stato di trance. Le ultime strofe mi escono dalla bocca come in un sussurro: «This is our last dance, this is our last dance. This is ourselves, under pressure, under pressure, pressure, pressure…»
I miei amici mi rivolgono uno sguardo sollevato.
Per fermare questo momento, decido di fare una foto. Mi sposto la tracolla dalla spalla. Ma appesa non trovo la mia borsa Coccinelle nuova di zecca, bensì uno zainetto Invicta a righe bianche e rosse. Perplessa, ci frugo dentro. Nessuna traccia dello smartphone e dell’iPad da cui mi considero inseparabile. In compenso, ci trovo un k-way blu, un paio di Ray Ban a specchio e un portafogli di plastica a fiori Naj Oleari. Incuriosita, ci guardo dentro: contiene la mia tessera universitaria, quella con cui avrei spuntato sconti fino all’età di 30 anni. Non solo, anziché le monete e banconote in euro, trovo invece delle lire.
Ci penso un attimo e poi la spiegazione mi salta agli occhi. La messinscena è completa: non solo ci siamo vestiti come allora, ma addirittura ci siamo portati gli stessi oggetti dell’epoca.
Come se avesse intuito il mio pensiero, Mauro ha pescato la sua macchinetta dallo zainetto, che sembra gemello del mio. Non mi stupisco di vederlo imbracciare una macchina tradizionale, di quelle con la pellicola che i miei figli non sanno neanche cosa sono.
Ci stringiamo tutti in un abbraccio felice e sudato e sorridiamo all’obiettivo.
Il resto del concerto è in crescendo.
Sulle note di Radio gaga, gli ingranaggi sul palco entrano il funzione e tutto il pubblico batte le mani un applauso fragoroso e inarrestabile. Per interpretare I want to break free, Freddie (o, sempre, chi per esso) indossa delle tette finte, mandando il pubblico in visibilio. Quando arriva la volta di We are the champions l’esaltazione diventa frenesia collettiva. Mentre urlo con tutta la voce che non sapevo di avere: «We are the champions my friend. And we’ll keep on fighting till the end. We are the champions. No time for losers, ’cause we are the champions» mi sento completamente felice. Giovane e incosciente. Con tutta la vita davanti.
In pieno bis, riusciamo ad arrivare quasi sotto il palco, sfidando il pericolo di venire schiacciati. Quando Freddie (è proprio lui, adesso non ho dubbi) sventola la bandiera italiana sulle note di God save the queen io urlo il suo nome e lo saluto con la mano, illusa che tra i tanti presenti lui noti proprio me.
Non succede, in compenso mi rendo conto che qualcuno mi picchietta sulla spalla. Mi giro. Accanto a me c’è il ragazzo carino con i capelli lunghi.
«Alfredo» si presenta, con l’aria furbetta. «Hai chiamato Freddie e ho pensato che volessi me».
Ammicco. Sono anni che non flirto con un uomo che non sia mio marito. Ma che male può esserci?
«Lorenza» gli dico e mentre gli allungo la mano destra, noto che sulla sinistra non c’è traccia della mia fede in oro bianco.
Intanto sul palco Freddie e gli altri sono ai saluti finali. Il pubblico grida, in estasi.
«Meno male che ho preso il biglietto anche per domani!» strilla Mauro, sventolandolo. Me lo faccio dare e rimango colpita da tre cose. Il luogo: il Palazzetto dello sport, che è crollato sotto la nevicata del 1985. Il prezzo: 14mila lire. La data: 15 settembre 1984.
Ma se Freddie era Freddie – e su questo non c’è dubbio – allora siamo veramente nel 1984?
«Mi dai il tuo numero?» Alfredo alias Freddie interrompe i miei pensieri.
«Ti do e-mail e cellulare» replico. E afferro il foglietto che mi porge. Poi mi blocco. Forse un numero di cellulare e un’e-mail li avevo, li avrò, ma adesso non mi vengono in mente. Scrivo così un numero di telefono di otto cifre e glielo porgo. Lui mi sorride. «Ti chiamo domani» mi assicura. Poi scompare, ingoiato dalla folla.
Una volta fuori, i miei amici fanno a gara ad acquistare souvenir della serata: magliette, poster, sciarpette.
Respiro l’aria fresca di piazzale Axum, poi lo stadio di San Siro entra di prepotenza nel mio campo visivo.
«Oddio!» esclamo.
«Che c’è?» si preoccupa Mauro.
«Ma manca un pezzo!» dico.
Tutti seguono il mio sguardo, incollato sullo stadio cittadino.
«Che ne è del terzo anello?»
Laura sospira: «Era tosta quella canna!»
Io mi giro verso di lei, offesa.
Alle sue spalle, c’è l’inconfondibile sagoma a sella di cavallo del Palazzetto dello Sport.
Prima di arrendermi all’evidenza, faccio un ultimo tentativo: «Ragazzi, dove abbiamo parcheggiato le nostre macchine?»
Diego e Cinzia si scambiano un’occhiata cauta. Come di chi cerca le parole giuste per rivolgersi a un matto ed evitare che diventi aggressivo.
«Nessuno di noi ha la macchina: siamo venuti in tram» replica lei.
«Con il 16!» esclamo io.
«Il 24» puntualizza Raffaella.
«Ma… – prendo tempo – in che anno siamo?»
Laura scuote la testa. Alessandro sfugge il mio sguardo. A rispondermi ci pensa Cinzia: «Siamo nel 1984. È il 14, anzi il 15 settembre».
Scuoto la testa e sospiro. «Ragazzi, non so che cosa mi è capitato. Voglio dire, ero dal dentista, era il 2013 e poi mi sono svegliata qui, adesso…»
Mentre lo dico è come se ne prendessi atto per la prima volta.
Intanto ci siamo incamminati verso la fermata del 16, cioè del 24.
Laura mi prende a braccetto. «Lo sappiamo noi, che cosa ti è successo» inizia.
La guardo speranzosa.
«Prima del concerto, oggi pomeriggio, dei ragazzi ci hanno offerto una canna. Abbiamo fumato tutti, ma tu, come dire, forse hai un po’ esagerato. Poi avevi bevuto della birra e non ci sei abituata. Così ti sei addormentata. E da quando ti sei svegliata hai cominciato a…»
«Straparlare?» le vengo incontro.
Lei annuisce.
Quindi questo non è un sogno. L’altro era il sogno. Ma com’è possibile? Mi sembrava così vivido. Ma era un sogno o… qualcos’altro?
Per salire sul tram bisogna prendersi a spintoni.
«Perché invece non andiamo a piedi, è una serata così bella?» propone la Raffa.
Siamo tutti d’accordo e ci avviamo.
Quando il mio racconto è completo, nei miei amici si accende la curiosità
«Ma in questa tua, come dire, visione io che cosa faccio?» mi chiede Cinzia.
«Sei dottore commercialista e ti occupi di diritto fallimentare. Sei sposata con Gianni e vivi ad Arona».
Cinzia annuisce, soddisfatta.
«E io?» si inserisce Mauro.
«Vivi ancora con i tuoi, lavori come consulente finanziario e viaggi in lungo e in largo».
«Io, invece?» si inserisce Laura.
Come dirle che si sposerà due volte e che avrà un figlio solo a 44 anni?
«Farai una mega carriera alla Rinascente!» replico, sperando si accontenti.
Lei lo fa. E ad alcune delle domande successive non ritengo di dare risposte troppo dettagliate. Per esempio, evito di dire a Diego che nel mio flash-forward me lo immagino calvo. E a Raffaella che il marito la pianterà per la baby-sitter moldava.
Del resto, è stato solo un sogno, no?
«Ma come sarà il mondo nel – Mauro fa una pausa, quasi quella data così lontana bastasse a spaventarlo – 2013?»
Sorrido.
«Ognuno di noi avrà un telefono cellulare. Ci saranno Internet e la posta elettronica. Leggeremo giornali e libri non più sulla carta ma sull’ipad e l’e-reader…»
«Sì, ma chi vince quest’anno lo scudetto?» mi interrompe Diego.
Sono sempre stata appassionata di calcio e, dopo averci pensato un po’, mi torna in mente chi ha vinto il campionato 1984-85:
«Il Verona».
«Il Verona?» chiedono all’unisono Mauro e Diego, sbigottiti. È chiaro che non mi credono.
«Senti, ma… – Raffaella pare riflettere – ma come sarà la politica?»
È con un certo compiacimento che annuncio alla mia amica ciellina la scomparsa della sua amata Dc. E che rivelo a tutti quanti il nome del protagonista assoluto della stagione politica del futuro.
«Sapete qual è il leader del primo partito nel 2013? Beppe Grillo!»
Tutti scuotono la testa.
«Il Verona che vince lo scudetto e Beppe Grillo al Governo. Caspita, era proprio tosta quella canna!» commenta Mauro per tutti.
Riprendiamo a camminare. Siamo quasi arrivati in piazzale Zavattari. Fra poco le nostre strade si divideranno. Io abito qua dietro con i miei genitori, in zona Fiera.
I miei amici, però, non se la sentono di lasciarmi da sola e ci tengono ad accompagnarmi sotto casa. Seguono saluti calorosi.
Infilo il portone, entro in ascensore. Nello specchio della cabina mi trovo davanti una ragazza bruna, spettinata, dal colorito acceso e dagli abiti stazzonati.
Adesso voglio solo andare a dormire. Domani è un altro giorno, chissà di che anno. Se sarà ancora il 1984, spero che Freddie – il lungocrinito, non Mercury – mi chiami. In fondo, Gaetano lo incontrerò solo nel 1997. Forse ho un’altra occasione per avere un’avventura con un ragazzo con i capelli lunghi.
Fine