Chi era Anna Politkovskaja, la reporter russa che osò denunciare il regime di Vladimir Putin, gli eccidi della guerra in Cecenia e gli orrori perpetrati da Ramzan Kadyrov?
Per scrivere il mio romanzo Anna Politkovskaja. Reporter per amore edito da Morellini ho studiato la sua vita. Letto i libri che ha scritto e che su di lei sono stati scritti. Ho intervistato le persone che le sono state vicine: la sorella Elena, l’amica Nadia, l’inviata Stella Pende… Poi, intorno alla sua biografia, ho costruito una cornice narrativa che ha reso più accattivante la sua biografia, già però molto avvincente.
A seguire, un capitolo alla volta, ecco la biografia, completa e approfondita, di Anna Politkovskaja, la grande reporter russa che, fino all’ultimo, fu una spina nel fianco per Vladimir Putin, Ramzan Kadyrov e tutti i soldati russi che, in Cecenia, si macchiarono di reati gravissimi.
Questa è l’undicesima puntata. La decima è: Il colonnello Mironov
Dubrovka
“In quel teatro, siamo serviti a qualcosa io e i miei succhi, il mio annaspare sull’orlo del baratro?”
Questa storia dall’epilogo drammatico inizia per Anna in un luogo lontano, quasi esotico. È il 23 ottobre del 2002 e lei si trova in California, a Santa Monica, dove ha tenuto una lezione di giornalismo a studenti e insegnanti della locale università. “È un delizioso ottobre americano. Questo sobborgo di Los Angeles davanti all’oceano è incredibilmente bello e luminoso, con tutti i suoi colori e le sue palme. Vestita leggera, entro nel mio albergo” scrive. Sono gli ultimi momenti di spensieratezza, per lei.
In poche ore si troverà a fare i conti con una pioggia battente e ininterrotta, “come è tipico in autunno a Mosca”. E con una tragedia.
Anna Politkovskaja, che da anni racconta la Seconda guerra cecena e la situazione politica in Russia, sta per fare il suo ingresso nella Storia. D’ora in poi, avrà una fama crescente e ignorarla, sia in Russia che all’estero, sarà sempre più difficile. Anche se in Russia ci riusciranno meglio.
Alla reception del suo albergo californiano, il concierge la avvisa che l’hanno cercata dal suo giornale. Lei richiama. Le dicono: “Hanno preso degli ostaggi alla Dubrovka. Nessuno sa che cosa fare. Putin non ha ancora detto niente”.
Facciamo un passo indietro. La Dubrovka è un teatro di Mosca, ma niente a che vedere con lo storico ed elegante Bolsoj. Non è un teatro importante del centro storico, ma una grossa sala della semiperiferia, in un quartiere del distretto sud-orientale di Mosca. In cartellone c’è il musical Nord-Ost, ambientato durante la Seconda guerra mondiale. I personaggi principali sono dei militari russi. Si tratta di un colossal, molto costoso nella realizzazione e di grande richiamo.
Mentre gli spettatori assistono al secondo atto, poco dopo le nove di sera, un commando di una quarantina di persone con il volto coperto entra nell’atrio. Molti indossano cinture esplosive, che in un secondo tempo si riveleranno invece finte. Molte sono donne. Le cosiddette “vedove nere”, o “shahidki”, che nella guerra contro la Russia hanno perso marito e figli. Indossano il niqab (il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi) e sono disposte a immolarsi pur di ottenere vendetta.
I membri del commando hanno fucili d’assalto con cui sparano colpi in aria. Inizialmente, visto che Nord-Ost è a tema militare, qualcuno pensa che l’ingresso del commando faccia semplicemente parte dello spettacolo. Ma l’equivoco viene presto chiarito. I terroristi si sparpagliano in sala e prendono in ostaggio gli spettatori (fra le 850 e le 900 persone). Molti hanno crisi di panico, iniziano a piangere e urlare. La cosiddetta “crisi della Dubrovka” è appena iniziata.
Nella confusione delle prime fasi, una novantina di ostaggi riesce a fuggire. Un’altra settantina – soprattutto bambini, donne incinte, persone malate – viene liberata dai sequestratori. Gli ostaggi sono tenuti all’interno dell’auditorium, mentre la buca dell’orchestra viene usata come toilette.
L’obiettivo dichiarato dell’azione è costringere Putin a mettere fine alla guerra in Cecenia. Nel video divulgato, viene detto fra l’altro: “Ogni nazione ha diritto al suo destino. La Russia ha sottratto questo diritto alla Cecenia e oggi vogliamo rivendicare questi diritti, che Allah ci ha dato, nello stesso modo in cui li ha dati a qualsiasi altra nazione. Allah ci ha dato il diritto alla libertà e il diritto a scegliere il nostro destino. Gli occupanti russi hanno inondato la nostra terra con il sangue dei nostri bambini”.
“I terroristi vogliono vederti. L’hanno appena chiesto” dice al telefono ad Anna la corrispondente della Novaja Gazeta Elena Milashina. A quel punto, Anna rientra precipitosamente in patria e si mette a disposizione.
“Il mio ruolo in questa tragedia comincia il 25 ottobre, verso le due di pomeriggio”. Anna ha preso accordi telefonici con i sequestratori e ora arriva all’ingresso del teatro. “Paura. Tanta. Con me c’è il dottor Rosal. Urliamo ‘C’è nessuno?’. Silenzio. Il teatro sembra deserto. Sono la Politkovskaja. Nel foyer del primo piano troviamo ancora silenzio e buio. Fa freddo. Finché da quello che era il bancone del bar si stacca un uomo, con una maschera nera” racconta Anna.
L’uomo mascherato è gentile con Anna, ma aggressivo con il dottore.
“Perché dici che hai curato i bambini ceceni, eh, dottore?” dice l’uomo mascherato. Il concetto è chiaro: forse intendi che non sono uguali agli altri, che non sono esseri umani?
Anna interviene: “Siamo tutti uguali. Fatti di pelle, ossa e sangue”. Si sente mancare, le gambe cedono, chiede di sedersi, prima che glielo concedano quasi scivola su “una qualche porcheria rossa spalmata sul pavimento”.
“Sbircio in basso: ho paura di sembrare troppo curiosa, ma ho ancora più paura di pestare sangue rappreso. Per fortuna è solo un dolce, forse un gelato di frutta. Comunque non è sangue e qualche brivido se ne va”.
Anna e il medico chiedono del capo. Aspettano. Hanno paura.
Sono momenti terribili. Anna viene in pace, ma non ha idea di chi si troverà davanti. Il suo è un salto nel buio. E un atto di generosità e coraggio.
Adesso ci sparano un colpo e addio, pensa. Poi arriva Bakar. Ha un mitra sulle ginocchia, che sposta solo alla fine, scusandosi: “Ormai sono talmente abituato che non me ne accorgo nemmeno. Ci dormo, ci mangio, è sempre con me”.
Ha 29 anni, finita la scuola è andato subito a combattere nei boschi. “Sulla politica annaspa. È solo un soldato. Mi dice che il gruppo di sequestratori riconosce Maschadov come presidente della Cecenia, ma poi combatte per conto proprio. Sono dei cani sciolti” racconta Anna.
“Combatteremo e moriremo – dice Bakar – Non ci crederà, ma ci sentiamo molto meglio qui dentro che in tre anni di guerra. Perché stiamo finalmente facendo qualcosa. E sarà bello morirci, qui. Sarà un grande onore essere parte della storia”.
Anna ha una serie di richieste da fare ai sequestratori. La prima, come da indicazione ricevuta dall’assistente di Putin Sergej Yastrzhembskiy, è quella di liberare i bambini.
“Durante i rastrellamenti, ce li portano via dai 12 anni in su, i nostri. E allora noi ci teniamo i vostri”.
“Per ritorsione?”
“Perché vi rendiate conto dell’effetto che fa”.
Alla fine, Anna riesce a spuntare solo la possibilità di portare acqua e succhi di frutta. Intravede appena gli ostaggi. Un ragazzo in frac e camicia bianca, probabilmente un orchestrale, le sussurra: “Hanno detto che cominceranno ad ammazzarci alle dieci di stasera, riferisca”.
Inizia a piovere, Anna non ha neanche l’ombrello. Pur spaventata e preoccupata, non perde un grammo del suo carattere e della sua classe. Indossa un cappotto nero. Sotto si intravedono un maglione bianco a collo alto e una sciarpa grigia. Ha i capelli corti, grigi, e una borsa nera, a tracolla.
“Siamo terrorizzati. Perché piove e noi siamo lì, quattro scemi in mezzo ai tiratori scelti, ad aspettare che ci sparino addosso” scrive.
E poi, a un collega della tv, racconta: “È dura, pensavo fosse più facile. Sono rimasta molto colpita dalle condizioni psicologiche in cui si trovano gli ostaggi. Sono disperati, rassegnati a morire e lo dicono esplicitamente. Non perdiamo tempo: serve acqua!”
Raccoglie i soldi fra i presenti, vigili del fuoco e giornalisti, perché “I rappresentanti dello Stato non hanno succhi di Stato pronti all’uso”. Si sbrigano, hanno tutti paura che i sequestratori cambino idea. Consegnano le casse d’acqua e i succhi di frutta.
La sua missione è compiuta, ma il peggio deve ancora arrivare.
In un altro articolo, pubblicato in Italia nel libro Un piccolo angolo d’inferno, la Politkovskaja fa un racconto un po’ diverso della sua esperienza alla Dubrovka. E la differenza fondamentale riguarda il ruolo avuto da suo figlio Ilya, che all’epoca ha appena compiuto 24 anni.
Fra gli orchestrali dello spettacolo c’è anche Ilya: amico, omonimo e coetaneo del figlio di Anna. Nonché ex fidanzato della figlia Vera.
“Mamma, Ilya è lì. Che possiamo fare? Puoi aiutarlo? Parla con i ceceni mamma, ti prego” le urla al telefono il suo Ilya.
Il figlio è combattuto fra il desiderio che lei aiuti l’amico, e tutti gli ostaggi, e la paura che le succeda qualcosa (“Per favore, non farlo. Non sai che cosa sta succedendo là dentro”).
Ma alla fine si offre di portare lui stesso l’acqua. Quando poi Anna va in redazione e lo racconta, il commento dei colleghi è: “Che ragazzi magnifici che abbiamo!”
Le trattative vanno avanti per giorni, non solo con il tramite della Politkovskaja, ma un accordo non viene raggiunto.
Alle 5 del mattino del 26 ottobre, le forze speciali russe Osnaz dei servizi segreti (Fsb, ex Kgb) prendono d’assalto l’edificio, pompando un potente anestetico attraverso il sistema di condizionamento.
Dopo un’ora, alle 6, fanno irruzione nell’edificio da vari accessi, compresi il tetto e le fogne. Inizia un combattimento a fuoco. La maggior parte dei sequestratori vengono uccisi, di una manciata si perdono le tracce.
Inizialmente, il governo non ammette perdite fra civili che invece poi (ufficialmente) saranno 129 e, in seguito a ricerche più approfondite fatte dalle famiglie, diventeranno 174.
Il presidente Vladimir Putin dichiara: “Il governo ha fatto l’impossibile, salvando centinaia di persone. Ma non siamo riusciti a salvare tutti, perdonateci”.
Al di là della versione ufficiale, iniziano subito a emergere molti dubbi. Tante le vittime del “fuoco amico”. Ai medici che prestarono i primi soccorsi non viene rivelata la natura del gas usato né fornito l’antidoto. Per anni, il governo russo si rifiuta di renderne nota la composizione. A un certo punto, si inizia a parlare di un oppioide particolarmente potente, di origine sintetica, noto come Fentanyl. Si tratta dello stesso tipo di molecola che ha ucciso popstar come Prince e, vi abbiamo anticipato che sarebbe tornato in questa storia, Michael Jackson.
“Ripensando all’accaduto, la mia conclusione è una sola: l’attentato è servito a fomentare l’isteria anti cecena, a continuare la guerra e a mantenere alto il gradimento del presidente” commenta Anna.
I parenti delle vittime fondano l’associazione Nord-Ost, che critica aspramente le autorità russe per l’uso del gas e la cattiva gestione dei soccorsi. Nel 2011 la Corte europea per i diritti dell’uomo darà loro ragione, affermando che, anche se la Russia ha legittimamente utilizzato la forza per risolvere la crisi, non ha però predisposto un adeguato piano di soccorso per le vittime degli effetti collaterali dovuti all’utilizzo del gas soporifero.
Ha dichiarato Giovanni Minoli, giornalista che ad Anna Politkovskaja ha dedicato più di un’inchiesta: “C’era un legame fortissimo fra Anna Politkovskaja e i parenti delle vittime della Dubrovka. Un legame nato dalla sua grande capacità di condividere il dolore altrui e rafforzato dalla sua coscienza civica e professionale, dalla limpida percezione di quelli che in democrazia dovrebbero essere i diritti dei cittadini e i doveri dello Stato”.
Perché Anna sa vedere sempre oltre ai freddi numeri. Tutte le vittime della Dubrovka, per lei, hanno un nome. È lei l’ultima speranza di Irina Fadeeva. Con il figlio quindicenne quella maledetta sera si trova alla Dubrovka quasi per caso. “Sento circolare il nome di Anna, fra le donne del commando, si capiva che la rispettavano e avevano fiducia in lei. Purtroppo non è servito a nulla”. Irina perde il figlio Jaroslav, ucciso da una pallottola russa, non cecena.
“Avevo un disperato bisogno di raccontare la storia di mio figlio, ucciso dalla ragion di Stato. Dall’ottusità di un potere che volle mostrare i suoi muscoli, sacrificando la vita degli ostaggi. E così andai trovare Anna. Lei mi ricevette subito, chiedendomi, con la sua voce dolcissima ‘Che cosa posso fare per aiutarti?’ Il giorno dopo, su Novaja Gazeta, uscì un articolo su mio figlio”.
Altre madri non ce la fanno a superare la perdita e si uccidono. Un mese dopo, Anna va a recuperare alla stazione di polizia Ilya. Non suo figlio, ma l’orchestrale. È sopravvissuto alla strage, ma non è più la stessa persona di prima.
“Quanto è più facile comprendere la sfortuna quando colpisce i nostri cari! Ilya è rimasto in quel teatro per tre giorni. Ha visto il gas diffondersi nella sala e poi è svenuto. Ma è stato fortunato: una delle prime ambulanze lo ha portato in ospedale. Ma ora ha i nervi a pezzi, sta rimettendo in discussione tutta la sua vita e non riesce a darsi pace”.
Peggio che a lui è andata all’orchestrale che ad Anna aveva sussurrato: “Hanno detto che cominceranno ad ammazzarci”. È morto. Ammazzato. Ma non da quelli che credeva i suoi nemici. Da quelli che non sapeva esserlo.
Graziano Graziani, conduttore di Fahrenheit, autore di libri e documentari ha fatto un cammino nella storia. E anche nella Mosca di oggi alla ricerca (non facile) del teatro scenario di questo drammatico evento. Lo ha trovato a fatica. E si è soffermato sul monumento commemorativo delle vittime, realizzato nel 2003: “Si tratta di una stele in cemento piuttosto spoglia, sormontata da tre cicogne che spiccano il volo scolpite in metallo. Sotto la stele, scarna e funebre, c’è un blocco di granito dove è scolpita una frase in russo: ‘in memoria delle vittime del terrorismo’. Nient’altro. Di quale terrorismo, di quale storia si tratti, non c’è traccia. Il monumento colpisce per la sua essenzialità, per la sua nettezza che si traduce in una formula elusiva. Non si parla della guerra con la Cecenia, soprattutto non si parla delle responsabilità delle autorità russe nella gestione della crisi”.
Lì accanto si trova una piccola chiesa ortodossa dedicata ai santi Cirillo e Metodio, inaugurata nell’aprile del 2011. Sul piazzale antistante questa chiesetta ha avuto luogo, il 26 ottobre del 2012, in occasione del decennale del drammatico evento, una prima commemorazione, che poi sarà ripetuta ogni anno.
Qui si radunano i sopravvissuti della Dubrovka e i parenti delle vittime. Vengono poi liberati nel cielo tanti palloncini bianchi quante sono state le vittime del sequestro terminato tragicamente.
“Tutto ciò, come sempre, nella totale indifferenza delle autorità russe. Vladimir Putin e Dmitry Medvedev, durante le rispettive presidenze, non hanno mai presenziato alle commemorazioni dei parenti delle vittime, né tantomeno hanno invitato rappresentati o messaggi di cordoglio” spiega Graziani.
Un pensiero su “La vera storia di Anna Politkovskaja. Dubrovka”